Social media e potere, un rapporto non sempre lineare ma soprattutto spesso poco trasparente.
Le immagini dell’assalto ordito dai “trumpisti” d’America a Capitol Hill il giorno dell’Epifania hanno letteralmente sconvolto il mondo. Ovviamente, non essendo questa la sede ideale per un commento di natura geopolitica sulla vicenda, ci limiteremo a trattare l’argomento da un punto di vista squisitamente tecnico, pur con i necessari risvolti sociali. Eviteremo anche di citare i complottismi e le teorie strampalate che muovono i seguaci di QAnon, perché ci teniamo a mantenere ancora la nostra sudata credibilità.
Il Presidente degli Stati Uniti, prima di essere l’uomo può potente del mondo, dovrebbe essere il garante della democrazia più importante del pianeta, una certezza per milioni di cittadini americani, una colonna portante per tutti i 50 stati federali.
Cosa succede però se il Presidente impazzisce, disconosce la democrazia che dovrebbe tutelare e fomenta, attraverso i social media, azioni violente contro il sistema che a suo dire lo avrebbe spodestato? In particolare, come devono comportarsi le società proprietarie di detti social media, per non essere considerate uno strumento utilizzato come mezzo per organizzare la rivolta?
Il punto di vista che vi offriamo oggi non è dunque quello del Presidente testardo o degli avversari livorosi, ma quello di chi sa che il proprio prodotto è come una pistola carica data in mano a un bambino e, per evitare problemi, ha comunque il potere di inserire la sicura rendendola meno pericolosa.
L’impazzimento del Presidente ha, da un punto di vista politico, due strumenti per essere neutralizzato e cioè l’applicazione del 25° emendamento, che ne prevede la decadenza, o il più famoso impeachment, paragonabile (ma non completamente assimilabile) alla nostra “messa in stato di accusa del Capo dello Stato”.
Quali sono invece gli strumenti di tutela dei cittadini che sui social media possono ancora ascoltare gli sproloqui di un presidente fuori di senno? Ce n’è solo uno di strumento, ed è il ban o la sospensione temporanea dell’account, esattamente la decisione presa da Twitter e Facebook. Attenzione però, stiamo pur sempre parlando del Presidente degli Stati Uniti e per le sue dichiarazioni esistono ancora gli uffici stampa e le testate giornalistiche ordinarie che, a loro volta, potrebbero rilanciarle sui propri canali social e TV; questo significa che è ovviamente impossibile la censura totale di un Presidente, ma in questo caso la sua comunicazione passerebbe almeno attraverso il filtro autorevole del giornalismo professionistico, legato al fact-checking e alla verifica delle fonti.
Detta così sembra facile, ma chi è allora che decide se il Presidente è impazzito o meno? I social media possono anticipare un eventuale giudizio di impeachment e, come in questo caso, bloccare gli account di Donald Trump?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo provare ancora una volta ad abbandonare la tentazione di tifare pro o contro qualcuno e analizzare oggettivamente la situazione. Se, alla luce dei fatti, esistono post o tweet tali da essere considerati gravi, addirittura talmente sobillanti da diventare una sorta di chiamata alle armi per sovvertire le istituzioni, allora la chiusura precauzionale degli account diventa lecita se non addirittura necessaria, proprio per evitare di diventare strumenti della rivolta.
L’atteggiamento tenuto dal Presidente sui social è apparso purtroppo fin troppo evidente già pochi giorni prima delle elezioni, quando immaginando o magari già sapendo in anticipo il risultato negativo, forse grazie a sondaggi segreti, aveva cominciato a brandire l’arma dei brogli elettorali per seminare dissenso e odio tra i cittadini americani, abituati negli anni a transizioni di presidenti basate sul rispetto e sul fair play.
Il paradosso è che se per assurdo fossero davvero appurati brogli elettorali negli USA, cosa che ad oggi non appare evidente, l’atteggiamento del Presidente Trump sarebbe comunque sbagliato e pericoloso, tale da giustificare comunque la sospensione degli account social. Esistono infatti strumenti legittimi per contestare le elezioni, ricorsi che si possono presentare ma che non devono e non possono fungere da scusa per tramare contro le istituzioni. E se tutti i ricorsi vengono persi, allora non resta che accettare il volere dei cittadini e lavorare per un’eventuale ricandidatura.
Al di là del clamore del gesto però, costato la vita, è bene ricordarlo, a 4 manifestanti e a un poliziotto, la sensazione è che gli americani, indifferentemente Repubblicani e Democratici, non si sentano rappresentati da uno sciamano “cornuto” italo-americano ma siano molto più affezionati alla democrazia rispetto alla figura di un singolo Presidente. L’esperienza di Trump, giunta al capolinea in modo infelice, difficilmente potrà essere ripetuta visti questi precedenti ma la storia, come noto, ha sempre un grande piacere nello smentire le previsioni dei commentatori.
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